I SANTUARI: LUOGHI DI FEDE, ARTE, MEMORIE
(mons. Giuliano Signorelli-direttore ufficio “Arte sacra” della diocesi di Como)
Anche in Valtellina la graduale espansione del Cristianesimo aveva imposto l’erezione delle chiese plebane battesimali nei centri più importanti e popolosi: da queste, nel corso dei secoli erano derivate le numerose parrocchiali per soddisfare la richiesta di assistenza spirituale fin nei villaggi più remoti. Solo in un terzo tempo sorsero alcuni santuari dovuti all’iniziativa di singoli o all’entusiasmo di gruppi di devoti, più che ad una razionale programmazione di piani pastorali coordinati dai vescovi.
Il carattere di eccezionalità della loro origine si manifesta pure nella tipologia come nella localizzazione.
Infatti, dal punto di vista architettonico, mentre le parrocchiali seguivano prevalentemente lo schema basilicale a tre navate, tramandato dalle maestranze comacine nelle costruzioni romaniche, o più tardi lo schema barocco dell’aula a navate unica secondo i programmi post-tridentini, i santuari, più piccoli ma più preziosi (Sassella, Morbegno, Tirano) venivano concepiti con maggiore libertà di progetto e sull’esempio di edifici famosi della cristianità (Tresivio, Loreto di Chiavenna).
Dal pari, erano preferiti i siti lontani dagli abitati, a differenza della parrocchia, che doveva ritagliarsi uno spazio entro il paese, dove le vie, incrociandosi, favorivano il formarsi di un sagrato, forse unico piazzale del borgo: la chiesa, ben segnalata per mole e monumentalità, si innalzava sopra i casolari e i modesti abitati a guisa di una madre che protegge i suoi piccoli.
La parrocchiale era vista come casa domenicale dove la totalità delle famiglie, interrompendo le pratiche feriali, si radunava per la scuola della verità, il convito della grazia, la gioia del sentirsi comunione di carità e di fede.
Il popolo la voleva bella e ricca, pur nella povertà diffusa. Era il rifugio di tutti, la casa abituale della preghiera, dei canti, della festa in cui ci si ritrovava per l’appuntamento settimanale, oltre che per i momenti solenni della vita, il battesimo, le nozze, l’addio estremo.
Poi, appena concluso il medioevo, in tempi afflitti da inquietudini collettive, scismi, guerre, qualche fatto imprevedibile interrompeva, come un lampo di luce soprannaturale, la regolarità della comune pratica religiosa: era la testimonianza di persone gratificate da fenomeni mistici, era la naturale esperienza collettiva di straordinari favori celesti legati a qualche particolare icona, che inducevano la nostra gente ad erigere, come voto o come risposta a sollecitazioni celesti, i santuari, rari, meno grandiosi ma forse più cari e belli, non solo perché realizzati dall’iniziativa popolare, ma anche perché venivano impreziositi dai migliori artisti, da Valorsa ai Recchi, da Gaudenzio Ferrari ai Morazzoniani, da Petrini a Ligari, dai Rodari a Bramante.
Tali centri di spiritualità, aperti a tutti, al di sopra delle ripartizioni canoniche e noti più nelle contrade remote, esercitavano una funzione complementare, non sostitutiva di quella parrocchiale, rappresentando, l’eccezione in confronto alla regola, l’opzione in confronto al consueto.
Il santuario lontano, visto come rifugio dell’anima e luogo di speranza, costituiva un forte richiamo anche per i distratti e i riottosi.
Perciò il pellegrinaggio, straordinario oppure a scadenze fisse, comunitario oppure individuale e fortemente motivato, diventava esso stesso un’allegoria dell’inquietudine umana e della ricerca di pace. L’allontanarsi dal proprio paese, dove il quotidiano scadeva nell’egoismo e nei rancori, il dirigersi verso il luogo del perdono erano già la traduzione esistenziale dell’allegoria evangelica: il prodigo si affrancava faticosamente dalla servitù del peccato per incontrarsi con la misericordia del Padre.
Abitualmente era compiuto dall’intera famiglia: genitori e figli lo vivevano come un’esperienza di gioia. Indimenticabile.
A distanza di anni i figli conservavano nel cuore il ricordo di quelle gite, piene di fede e di innocenza, sicché tornandovi adulti, potevano credere di rivedere nel mite volto della Vergine (tutti i nostri santuari sono a Lei dedicati, salvo quello di S. Guglielmo d’Orange in Valle Spluga) i lineamenti e gli ammonimenti affettuosi della loro mamma: che così in tal modo non poteva mai morire.
Né mai muoiono o ruinano i nostri santuari. Anzi rimangono a svelarci il senso del viaggio terreno, dall’inizio alla fine: proprio come la Madonna del Pozzo, sullo sperone del Monte Legnone in vista del Lario, segna l’inizio dell’itinerario rettilineo che, oltre le tappe del’Assunta presso il Bitto, le rupestri Sassella e Tresivio, la Vergine del Piano a Bianzone, ci conducono alla meta finale di Tirano, candida nei suoi marmi rinascimentali.
Tale “via retta”, come la corda tesa di un arco su cui le storie individuali si accordano e si fondono nella storia collettiva del nostro popolo cristiano, segna religiosamente la valle, scavata tra le Orobie e le Retiche, in una stupenda sequela di sacri edifici, luoghi di fede, arte, memorie.