(Prof. Guido Scaramellini)
L’apparizione della Madonna a
Gallivaggio in Valchiavenna, annunciata da due ragazze che stavano raccogliendo
castagne il 10 ottobre 1492, era narrata in una pergamena, andata dispersa
probabilmente a fine ’700, ma della quale abbiamo fedeli trascrizioni
seicentesche. Questo il testo, tradotto dal latino.
«Gesù Maria. Sia noto a tutti
coloro che leggeranno questo documento come la beatissima Vergine Maria, madre
di Dio, degnissima di ogni lode, apparve nella val San Giacomo presso
Chiavenna, in diocesi di Como, l’anno del Signore 1492, il 10 ottobre, di
mercoledì, dopo il levar del sole, a due fanciulle che raccoglievano castagne
in una località chiamata Gallivaccio. Apparve con grande splendore dapprima
come una piccola fanciulla, poi gradualmente diventando una persona adulta e
nobilissima, con un velo bianco in capo che scendeva fin sulle spalle; attorno
a lei c’erano degli angeli che svolazzavano come farfalle d’estate. Il candore
della sua veste si riverberava sul volto, lasciando nello stupore i cuori di
quelle due fanciulle che sedevano sotto un castagno, dirimpetto a un masso, su
cui si fermò in piedi la beatissima immacolata madre di Dio, dicendo alle due
fanciulle: “Che cosa fate, o giovani?”.
“Siamo qui a raccogliere
castagne”, esse risposero.
La beatissima Vergine soggiunse:
“Ne avete a sufficienza? Siete povere?”.
Risposero le fanciulle: “Ne
abbiamo a sufficienza per grazia di Dio e della beatissima Vergine Maria”.
Ed ella con un dolce sorriso
disse: “Sono io la Vergine Maria”.
Quelle fanciulle, sentito questo,
credendo immediatamente per la bellezza e lo splendore di cui furono
circondate, confortate e subito consolate dalla parola della beatissima
Vergine, si alzarono e poi, inginocchiate, la invocarono dicendo: “O nostra
signora, come mai sei venuta in un posto così selvaggio?”.
Rispose la beatissima: “Io vado in
ogni luogo per la conversione dei peccatori”.
Quelle dissero: “O beatissima
Vergine, non permettere che i giusti periscano per colpa dei peccatori”.
La beatissima Vergine Maria
aggiunse: “Io non posso più oltre pregare mio figlio”.
Così dicendo, alzò il lembo della
sua veste candida e splendente, mostrando le ginocchia e le mani sanguinanti e
disse: “Se i peccatori non si convertiranno, il mondo non potrà durare a lungo.
Sappiate questo, o ragazze, - soggiunse – che mio figlio, vostro Signore, poco
tempo fa, volendo distruggere il mondo, mandò, come sapete, una folgore molto
tremenda, ed io intervenendo andavo gridando: ‘Misericordia, misericordia,
misericordia’. Così in altri paesi il terremoto del giorno di Sant’Antonio, dei
giorni precedenti e seguenti, era stato tremendo. E questo fu particolarmente
disastroso per molti che pensavano a uno scherzo e non credevano che ciò fosse
accaduto per l’indignazione di mio figlio, vostro Signore. Così ancora era
stato predetto che una città, Coira, sarebbe stata rasa al suolo, e ciò sarebbe
avvenuto se io non avessi pregato insistentemente. Così poco prima s’era fatta
improvvisamente notte per un nubifragio violentissimo che sradicò castagni,
spazzò via fabbricati e ponti e, anzi, tutto annientò. Dite che, se i peccatori
non si convertiranno e se non osserveranno meglio i giorni festivi, stiano
certi che la punizione di mio figlio, loro Signore, arriverà presto. Dite anche
che, secondo la tradizione dei miei devoti, per ossequio a me e a mio figlio,
inizino a osservare il giorno festivo dalle 15 di ogni sabato; così infatti mio
figlio e vostro Signore prenderà motivo di accogliere ancor più le mie
suppliche per voi ed io non mi stancherò di pregare con maggior ardore per voi
peccatori”.
Dicendo queste e altre parole, la
beatissima Vergine si congedò dalle giovani e, lasciando questa terra, tornò
nel regno dei cieli.
Su, o padri e fratelli miei
amatissimi, prestate fede a questi avvenimenti, se avete fiducia nella nostra
patrona (che è madre di tutti e veramente madre di misericordia, madre di
meriti e di grazia), senza il cui aiuto nulla possiamo, senza le cui mani nulla
possiamo sperare di buono e senza la cui mediazione nulla Dio ci concederà.
La piissima Vergine Maria in
seguito confermò queste sue parole e questi suoi atteggiamenti con molti
prodigiosi miracoli, il che è stato accertato dalla testimonianza di molti
degni di fede e valutato come evento soprannaturale».
La pergamena contenente il
racconto dell’apparizione continuava con la narrazione dei primi 29 miracoli
avvenuti dopo l’apparizione. È documentato che nel 1515 il testo veniva già
tradotto in tedesco, essendo la Valchiavenna da tre anni sotto il dominio della
repubblica dei Grigioni, di lingua prevalentemente tedesca.
È curioso che l’apparizione sia
avvenuta mercoledì 10 ottobre 1492, due giorni prima della scoperta
dell’America, una data simbolo, che segna la fine del Medioevo e l’inizio dell’età
moderna. Quanto alle ragazze che annunciarono la visione, la pergamena non
fornisce il nome, ma doveva abitare nelle vicinanze, nel territorio
dell’attuale comune di San Giacomo Filippo. D’ottobre era normale che delle
ragazze stessero di buon mattino raccogliendo castagne, una delle poche risorse
del suolo. Nel semplice colloquio, alla richiesta da parte della misteriosa
signora che, prima di affrontare argomenti religiosi, si informò della loro
condizione materiale, chiedendo se avessero castagne a sufficienza, le ragazze
la rassicurarono, premurandosi di aggiungere per grazia di Dio e della Madonna,
secondo lo stile di fede e di rassegnazione della nostra gente.
Il messaggio mariano, riferito
dalle ragazze, non privo di toni severi, è una esortazione ai peccatori a
convertirsi e a osservare puntualmente il riposo festivo, iniziando dall’ora
nona, cioè dalle 15, o dai vespri, come si diceva. L’implorazione di
misericordia, ripetuta tre volte dalla Madonna a suo figlio, ha portato a
invocarla come madre della misericordia, cadendo in disuso nei secoli gli altri
appellativi di Madonna del sasso o delle grazie.
Non va dimenticato che in val San
Giacomo meno di vent’anni prima erano ripresi i flussi commerciali attraverso
lo Spluga, grazie al miglioramento della via Mala, a nord del passo, che
portava a Coira. In una economia povera, legata a quel poco che poteva dare
l’agricoltura, l’associazione dei Porti, istituita fra i Comuni sui due
versanti del passo, diede un apporto notevole alla vita degli abitanti della
val San Giacomo, che costituiva un unico Comune e uno dei sei Porti. A turno
essi davano lavoro alle persone iscritte a ruolo per il trasporto in monopolio
delle merci. Era così frequente che si dovesse lavorare anche alla domenica. Si
comprende così il contenuto del messaggio della Madonna.
Tra i segni inviati dal cielo come
ravvedimento ai peccatori vengono ricordati il terremoto dei giorni intorno al
17 gennaio, festa di sant’Antonio abate, e il timore per la distruzione di
Coira, capoluogo allora della lega Caddea, una delle tre che avevano dato vita
alla repubblica delle tre Leghe o dei Grigioni. Mentre del primo fatto non si
trovano riscontri, sono documentati i violenti incendi di Coira nel 1464 e il 5
aprile 1479.
La notizia dell’apparizione non si
diffuse subito, almeno stando ai documenti dell’epoca. Probabilmente ciò va
attribuito alla reazione delle due ragazze, che dovettero rimanere a dir poco
frastornate per quello di cui erano state protagoniste, loro così poco abituate
a fatti eccezionali e dedite invece a una vita metodica, umile e sempre uguale.
Si saranno rivolte ai genitori e al beneficiale o curato, che allora era a San
Giacomo Lorenzo de Pegorino di Fraciscio, il quale avrà informato il pievano di
Chiavenna Giovan Battista Pestalozzi. Questi a sua volta avrà messo al corrente
il vescovo di Como Cesare Trivulzio o più probabilmente, essendo questi spesso
assente dalla sede, il suo vicario generale, il quale avrà raccomandato, come
d’uso in questi casi, la massima riservatezza e prudenza.
Certo è che la prima notizia di
una chiesa della Madonna a Gallivaggio è in un atto notarile del 29 settembre
1499. La sua costruzione nel punto più orrido, sassoso e pericoloso della val
San Giacomo, a quota 796, ai piedi di una montagna incombente e brulla, fra tre
corsi d’acqua, rimanda facilmente a un fatto eccezionale che la giustifichi,
come l’apparizione della Madonna, che avviene in un periodo di altri fenomeni
analoghi. Apparizioni mariane furono annunciate a Caravaggio nel 1432, a Saronno
nel 1460, a Milano in San Celso nel 1485, a Grosotto in Valtellina nel 1487, a
Crema nel 1490, a Villa d’Almè nella Bergamasca nel 1496. Anzi, in quest’ultima
valle, a San Gallo, nello stesso anno di Gallivaggio, il 4 aprile, certa
Caterina de Lupis rivelò di aver visto sanguinare una immagine della Vergine.
Si aggiunga l’apparizione mariana presso Locarno in canton Ticino nel 1480 e,
più vicino a noi, quella di Tirano a Mario Omodei il 29 settembre 1504.
Già
nel ’600, come testimoniano le prime storie pubblicate a Milano da Gian Giacomo
Macolino, le pareti del santuario erano tappezzate “d’innumerevoli ceree, e
argentee figure, di teste, gambe, petti, braccia, piedi, e di votive tabelle
appesevi da campati da lor malanni”.
Tra i primi fatti miracolosi,
registrati nella pergamena dopo il racconto dell’apparizione, sono ricordate le
armonie celestiali e uno scampanio dolcissimo che si sentì talvolta sul luogo.
Due prove venero opposte a chi non credeva che sul sasso di granito, ancor oggi
conservato nel santuario, avessero posato i piedi della Madonna: il primo
riguarda un giovane e un anziano presi da forti dolori ai piedi per alcuni
giorni, finché non si ricredettero; l’altro fu la comparsa sopra il masso della
figura della croce, mentre se ne mostrava un frammento ad alcuni scettici.
Il sasso, ridotto in polvere,
diluito in acqua e bevuto, troncò la febbre a molti o il mal di denti,
tenendone in bocca una scheggia.
Un fatto miracoloso è attribuito
anche alla madre di una ragazza dell’apparizione: paralitica da oltre cinque
anni, dopo aver cominciato a osservare quanto la Madonna aveva chiesto, guarì.
Un uomo di mezza età, affetto da
malattie veneree, si raccomandò alla Madonna, “proponendo di mai più mettersi
in quelle occasioni”, e risanò. Ancora, una donna, quasi morta da sei-sette
ore, portata a Gallivaggio, si riebbe, dopo che il marito aveva promesso una
pecora.
Alcuni fatti sono legati alla
costruzione della chiesa e della casa annessa. Erano venuti a mancare quattro
ferri di contrasto per le longarine degli archi del coro e miracolosamente
comparvero sul cantiere. Nel costruire il locale della cucina della casa, due
travi risultarono quattro dita più corte e prodigiosamente si allungarono anche
più del necessario.
Un Costa di Mese, un paese nel
piano di Chiavenna, raccomandò alla Madonna suo figlio affetto da scabbia e ne
ottenne la guarigione. Egli stesso, proprietario di un mulino, dopo una notte
in cui presentiva che là fosse successo qualcosa, si affidò alla Madonna.
Recatosi sul posto alla mattina, lo trovò in fiamme, ma, gettato un solo
secchio d’acqua, il fuoco si spense senza danni. È ancora lui che ritrovò con
l’aiuto della Madonna una borsa piena di soldi che aveva perduto.
Uno di Pianazzòla, il paesino sul
pendio sopra Chiavenna, quasi cieco da oltre cinque mesi, recatosi al santuario
e promesso di pellegrinarvi per tre domeniche e di offrire una giornata di
lavoro, riacquistò la vista.
Vi è anche un caso di indemoniata:
accompagnata a Gallivaggio dal marito di Villa di Piuro (oggi Villa di
Chiavenna), fu liberata.
Un certo Giacomo, con un tumore a
un ginocchio da quasi sei anni, guarì dopo che la moglie aveva pregato la
Madonna al suo santuario. Lo stesso aveva fatto la mamma di una bambina di
dieci anni, muta dalla nascita. La portò al santuario e dopo la Messa la
piccola cominciò a parlare.
Un giovane claudicante guarì dopo
che il padre si era raccomandato alla Madonna.
Tra i prodigi riferiti dalla
pergamena, solo uno riporta le generalità del padre del miracolato: è Giorgio Vertemate
di Piuro, il cui figlio, agonizzante, migliorò e guarì, dopo essere stato
portato a Gallivaggio.
Ancora, un sordo riebbe l’udito
dopo aver baciato il sasso dell’apparizione. Un uomo della Riva di Mezzòla
ritrovò i cavalli sani e salvi, che la corrente aveva trascinato via. Due
uomini di Bregaglia guarirono da febbri persistenti. Uno sordo e ossesso,
l’altro muto e sciocco guarirono mentre tornavano con il padre da un
pellegrinaggio a Gallivaggio. Uno della valle, emigrato in Piccardia, finito in
carcere perché coinvolto in una lite, si raccomandò alla Madonna della
misericordia e fu liberato.
Infine un miracolo, accaduto il 12
ottobre 1583, era attestato da un affresco in santuario, oggi scomparso:
Franceschina, moglie di Giovanni della Trauna di Roncaglia di Piuro, aveva
avuto un figlio morto, che il padre portò a Gallivaggio, posandolo sull’altare
mentre si celebrava la Messa. Al vangelo il piccolo risuscitò e fu subito
battezzato. Due ore dopo “spirò nel Signore”.
Fin qui la pergamena, ma un’altra
serie di miracoli è testimoniata dagli storici che si occuparono del santuario.
Ne ricordiamo alcuni.
Pietro detto Scarella di Piuro,
navigando nel 1615 verso Palermo su un vascello genovese, fece naufragio per
una improvvisa burrasca e, invocata la, giunse in porto sano e salvo.
Sempre a Palermo dimorava Paolo
Camillo del lago di Como, che soffriva di male ai fianchi: dopo che un padre
cappuccino gli fece il segno della croce sulla parte dolorante con una scheggia
del sasso dell’apparizione, il dolore scomparve. Altri emigravano per lavoro a
Napoli, come Antonio Forella di Gordona che nel 1637, affetto da roseola a una
gamba, risanò dopo aver fatto per tre giorni una lavanda con acqua in cui era
stata intinta una scheggia del sasso miracoloso. Guglielmo Chiaverini, detto
Scaotino, di Campodolcino stava navigando nel mare di Napoli nel 1673 quando fu
salvato dal naufragio. Un altro di val San Giacomo, Rocco Macolino, nel 1665 si
trovava a Firenze, quando fu colpito alla testa da un fendente “sin a scoprirsi
la cervella”, e prodigiosamente in pochi giorni guarì. Anche Stefano Rossini,
ferito da un suo avversario a una coscia, rischiava la cancrena, ma dopo undici
mesi la madre si rivolse alla Madonna e il figlio si riprese. Un altro
emigrante di Villa, che lavorava a Venezia, avvelenato da acqua putrida, riuscì
a vomitarla dopo aver bevuto acqua con schegge del sasso.
Melchiorre Mesochetto di Piuro,
dimorante a Vicenza, fu liberato dalla febbre quartana. Giovan Pietro Tognetti
di Uggia, macellaio, in viaggio verso le Fiandre, fu colto dalla burrasca sul
lago di Costanza. Si raccomandò alla Madonna e sbarcò senza problemi. Antonio
Cerletti di San Bernardo, ammalatosi nel 1693 a Thusis, guarì per intercessione
della Madonna. Lo stesso successe al dottor Fioramonte Pestalozzi di Chiavenna,
arruolato nel reggimento francese del colonnello Stoppa, pure di origini
chiavennasche, durante l’assalto della Girona in Catalogna, e a Giovanni
Micheroli di Sommarovina, al servizio del duca di Savoia durante una battaglia
in Piemonte contro i Francesi.
Un grigione della val Sursès, dopo
tre mesi di febbre, avuta da un padre cappuccino una corona del rosario che
aveva toccato il sasso dell’apparizione, la mise al collo e fu liberato dalla
febbre. Sempre nella stessa valle gli allevatori faticavano a far cagliare il
latte; ottenuto alcune schegge del sasso, lo misero nel latte e subito cagliò.
Anche gli abitanti di Chiavenna
ricorsero alla Madonna di Gallivaggio quando in seguito alla frana di Piuro del
4 settembre 1618 la Mera minacciava l’esondazione e, in segno di riconoscenza,
portarono al santuario 12 grosse torce di cera bianca e una grossa somma in
denaro. Altre comunità ricorrevano alla Madonna per chiedere la pioggia o il
bel tempo.
La stessa piccola comunità di
Gallivaggio tra l’autunno del 1693 e la primavera seguente fu afflitta da una
febbre maligna che fece diversi morti. Molti fecero voto di lavorare
gratuitamente per una settimana al santuario e l’epidemia si spense.
Nel 1631, nel sistemare la nicchia
dove mettere la statua della Madonna con il bambino, uno degli operai mise i
piedi sul sasso e non li voleva levare: solo quando lo fece, l’atroce dolore
che lo aveva preso sparì.
Anche le maestranze addette alla
costruzione della chiesa furono beneficiate dalla Madonna. Filippo
Cristoffanino della Valmaggia, affetto da febbre viscerale con emicrania e
vomito, essendo già anziano, temeva per la sua vita, ma, affidatosi alla
Madonna, promise tre giornate di lavoro gratuito e guarì. Qualcosa di simile
toccò al compaesano Pietro Gianella, falegname. Infine mastro Giovanni Guerra,
durante l’erezione del campanile nel luglio 1731, precipitò da un’altezza di
oltre 20 metri. Affidatosi alla Madonna, se la cavò con una leggera ferita al
ginocchio.
Altri fatti prodigiosi accaddero
durante la costruzione del convento dei Cappuccini a Chiavenna nel 1640-41.
L’elenco dei miracoli continua per il Sette e l’Ottocento, ma per questo si
rimanda alla monografia uscita nel 1998.
Una
prima cappella in legno fu benedetta il 31 maggio 1493 dall’arciprete di
Chiavenna Giovan Battista Pestalozzi. Erano trascorsi sette mesi e mezzo
dall’annuncio dell’apparizione. Ben presto la costruzione si dimostrò
insufficiente, dato il notevole afflusso di devoti, per cui, abbattutala, si
cominciò nel 1510 la costruzione di un edificio più capiente e già cinque anni
dopo compare il primo rettore nella persona di frate Angelo de Faciolinis. La
chiesa aveva quattro altari con moltissime candele e immagini di cera e su
tavola, appese attorno.
Trascorso poco più di un secolo
dall’apparizione, anche questa seconda costruzione risultò inadeguata, per cui
nel 1598 si decideva di erigere un nuovo santuario, che è l’attuale. Vi
contribuirono i fedeli provenienti dalla Valchiavenna, ma anche dai Grigioni e
dal Comasco e insieme il vescovo di Como Feliciano Ninguarda, che inviò 200
scudi imperiali di Milano.
Quanto alle maestranze, qui come
in gran parte della Valchiavenna operarono le ditte provenienti dalla
Valmaggia, oggi in canton Ticino, alle quali va attribuito anche la chiesa di
Gallivaggio, di forme molto sobrie all’esterno, secondo i dettami di san Carlo
Borromeo, e più ricche all’interno, anche se si conservò quella certa misura
alpina che mai eccede in decorazioni.
Presenta tra navate, divise da due
file di colonne monolitiche in pietra locale e tre altari sulla parete di
fondo. A differenza di oggi, ce n’era un quarto in mezzo alla navata centrale,
detto dall’apparizione e costituito da una nicchia con le statue della Madonna
e del bambino. Sotto era posto il sasso su cui le ragazze dissero di aver visto
posare i piedi la Madonna.
Il 19 gennaio 1615 la chiesa fu
solennemente consacrata da Filippo Archinti, vescovo di Como. In facciata
c’erano tre finestre: tra le due aperture in corrispondenza delle navate
laterali ce n’era una centrale a mo’ di rosone circolare, chiuso nel 1759,
quando alla controfacciata si addossò l’organo.
Nel 1729 iniziò la costruzione del
campanile, distante alcune decine di metri dalla facciata: sostituì il pilastro
pericolante che si ergeva sopra il tetto in facciata. La torre, terminata nel
1731, è la più alta della Valchiavenna con i suoi 52 metri. Le prime due
campane furono finanziate dagli emigranti di Roma e di Palermo, come si legge sopra
l’architrave del portale.
Nel 1741 fu rimosso l’ingombrante
altare centrale dell’apparizione e costruito uno nuovo in marmo nel
presbiterio, mentre la pala di quello precedente fu appesa nella navata
sinistra. Il masso fu collocato sotto la mensa, dove rimase fino al 1976,
quando fu traslato nella nuova mense più avanzata.
Il 16 giugno 1742 il vescovo Paolo
Cernuschi incoronò solennemente le statue della Madonna e del bambino. Le
corone d’oro, donate dal capitolo di San Pietro in forza del legato del conte
Alessandro Sforza Pallavicino di Borgonuovo (Piacenza), furono comunque, almeno
in parte, pagate dalla vice parrocchia di Gallivaggio, come risulta dai
documenti d’archivio.
Tra le visite illustri tra Otto e
Novecento vanno ricordate quelle del beato card. Andrea Ferrari, allora vescovo
di Como, che si recò a Gallivaggio nel 1892 per il quarto centenario, dei
cardinali arcivescovi di Milano Ildefonso Schuster, Giovan Battista Montini,
che fu a Gallivaggio sette volte prima di diventare papa Paolo VI, e Carlo
Maria Martini nel 1989. L’ultima solenne celebrazione è del 1992, quinto
centenario dell’apparizione, mentre nel 2000 il santuario è stato chiesa
giubilare.
Entrando
nel santuario, l’attenzione è attratta verso il presbiterio, interamente
dipinto da Domenico Caresana di Cureglia in Ticino nel 1605-1606. Ne fanno fede
due scritte dipinte nella cappella maggiore. La prima, con la firma del
pittore, è nell’affresco della Natività di Gesù, sulla parete sinistra, in un
rettangolo nell’angolo a sinistra in basso: “Dominicus Caresianus / de Cureglia
vallis Luga- / ani [sic] hoc opus fecit. / Anno 1605”. La seconda, con il nome
dell’offerente, è sullo sguancio superiore della finestra trilobata al centro
della parete di fondo, dietro l’altare: “Hoc opus est / constructum pietate et
/ munificentia d[omi]ni Ioannis / Petris [sic] De Verteman / Franchi 1606”.
La volta a botte è decorata con
scene della vita di Maria: a sinistra la Natività della Madonna e la sua
Presentazione al tempio (quest’ultima si rifà a Camillo Procaccini nella chiesa
della Madonna di Campagna a Pallanza); a destra l’Annunciazione e verso il
fondo lo Sposalizio con Giuseppe. Nel grande ovale al centro è l’Assunzione
della Madonna tra angeli, di cui uno in basso regge un lungo cartiglio con il
versetto che segue l’inno delle lodi per la festa dell’Assunzione (malamente
integrato dai restauri). Inquadrano la scena, oltre la cornice in stucco,
coppie di testine alate su nubi.
Sulle pareti sottostanti, in ampi
rettangoli, sono rappresentati a sinistra la Natività di Cristo, dove dalla
culla sotto una tettoia si irradia una luce che illumina tutti gli astanti, a
partire dalla Madonna e da Giuseppe fino agli otto pastori che stanno a lati,
di cui due inginocchiati in preghiera. I loro volti segnano i due lati di un
triangolo i quali convergono nella figura di luce del bambino, centro della
scena. Sulla parete di fronte è l’Adorazione dei magi, che richiama anch’essa una
analoga scena dipinta dal Procaccini nella citata chiesa di Pallanza. Il gruppo
di astanti, poi, ricorre molto simile, nella stessa chiesa, in un affresco di
Carlo Urbino, seguace del Morazzone. La scena di Gallivaggio ripete quella
realizzata dal Caresana nella chiesa di San Salvatore a Vercana. La Madonna e
il bambino occupano la metà sinistra dell’affresco, mentre nell’altra metà i
sei gentiluomini in piedi sono vestiti riccamente con abiti cinquecenteschi.
Tra tutti spicca quello all’estrema destra, che con la sua figura riempie in
altezza il quadro. Ha lo sguardo rivolto allo spettatore con uno spadone
sorretto con la destra e un pugnale a sinistra. Nasce il sospetto che si possa
trattare di un autoritratto del pittore o di quel Giovan Pietro Vertemate
Franchi che aveva commissionato l’opera. Simonetta Coppa avanza l’ipotesi che
siano presenti più di un ritratto, magari quelli dei committenti, anche se la
normativa fissata nel 1565 dal primo Concilio provinciale milanese per le
diocesi lombarde proibiva nelle chiese immagini non approvate dal vescovo o
contrarie alla verità delle Scritture, della tradizione e della storia
ecclesiastica. Ma in fondo, anche in questo caso, l’inserimento di ritratti dei
committenti poteva essere messo alla pari di quelli degli offerenti, che si
continuò a ritrarre a lato, anche se spesso in dimensioni ridotte.
Il sottarco trionfale è decorato
da sinistra dal veggente Bala, dalla Sibilla Tiburtina, dalla Sibilla Frigia e
dal profeta Geremia, mentre sulla parete di fondo sono affrescate le due grandi
figure dei profeti Isaia sopra la porta di sacrestia e Tobia sopra quella
dell’oratorio, oggi ripostiglio. Nella lunetta, oltre il cornicione, attorno
alla finestra trilobata sono rappresentate ai lati la Sibilla Samia e quella Chimica.
Va attribuita allo stesso Caresana
anche la decorazione della cappella laterale sinistra detta della Strage degli
innocenti, rappresentata nell’affresco centrale sopra l’altare, che si ispira a
una incisione raffaellesca di Marcantonio Raimondi. È sormontato da lunetta con
putto alato reggente le corone del martirio. Nella parete sinistra l’angelo
avverte Giuseppe in sonno, appoggiato a un masso, di fuggire in Egitto, con la
Madonna seduta al centro che sta allattando il bambino; di fronte la Fuga in
Egitto. Sulla volta a botte sono raffigurate la Circoncisione a sinistra e di
fronte la Presentazione al tempio, con il Padre eterno al centro. Nel sottarco
sono dipinte le sante Apollonia e Caterina da Siena.
Ancora al Caresana con suoi aiuti
viene assegnata la decorazione della cappella di destra con alcune ripetizioni
tematiche rispetto a quella maggiore. Sull’altare è raffigurata l’Annunciazione
con l’angelo che addita con l’indice destro un nastro su cui è scritto: “Ave
grati[a] / plena / Domin[us] / tecum”. Nella parte alta dell’affresco è il
Padre eterno tra angeli. Nella lunetta superiore è il triangolo con l’occhio di
Dio. Sulle pareti verticali a sinistra è rappresentata la Visita di Maria a
Elisabetta e a destra una mediocre Natività di Gesù con un angioletto in volo
reggente un nastro con la scritta: “Gloria in altissimis Deo”; sulla volta a
botte la Presentazione al tempio, la Disputa tra i dottori e, al centro, la
gloria di Maria tra angeli musicanti e putti. Il sottarco presenta coppie di putti
alati reggenti dei nastri.
Su questo ciclo del Caresana
scrive la Coppa: “Per ampiezza ed organicità, oltre che per livello
qualitativo, la testimonianza più compiuta della diffusione della tarda maniera
milanese nel nostro territorio [Valtellina e Valchiavenna] è costituita senza
alcun dubbio dalla decorazione della cappella maggiore e delle due cappelle
terminali delle navate laterali del santuario mariano di Gallivaggio, ad opera
di Domenico Caresana di Cureglia e di Camillo Landriani detto il Duchino”. A
quest’ultimo si deve quella che fu fino al 1741 la pala dell’altare maggiore,
oggi appesa nella navata laterale sinistra. Raffigura l’Incoronazione della
Madonna e risale al 1606, sempre su commissione di Giovan Pietro Vertemate, che
finanziò anche l’esecuzione degli affreschi.
Un’altra tela degna di
considerazione è la Crocefissione tra cinque frati francescani e cappuccini,
appesa nella navata destra. Fu eseguita da Cesare Ligari nel 1739 probabilmente
per la chiesa di San Giuseppe annessa al convento dei cappuccini di Chiavenna e
donata al santuario nel 1872..
Nel 1884, in previsione del quarto
centenario dell’apparizione del 1892, il santuario fu affrescato anche nelle
navate, che erano coperte dai numerosi ex voto appesi alle pareti. Contemporaneamente
i dipinti del presbiterio furono contornati da altre cornici e rosoni in stucco
dorato e le pareti rimanenti furono rivestite a finto marmo. Per decorare le
navate fu scelto il pittore-restauratore Luigi Tagliaferri di Pagnona (Lecco),
in quei decenni molto attivo anche nelle chiese della Valchiavenna, dove ha
lasciato opere dignitose, che rientrano nel filone della pittura sacra
ottocentesca, riprendendo moduli classici senza molta creatività, ma con una
consolidata esperienza tecnica.
Fu così ridipinta sopra il fonte
battesimale, eseguito in marmo nel 1652, la figura di san Giovanni Battista che
battezza Gesù, mentre sulla volta centrale, entro un grande ovale, tra due
altri a cielo stellato, fu raffigurata l’Incoronazione della Madonna da parte della
Trinità fra testine alate a angeli svolazzanti sulle nubi. Nelle ricadute delle
volte sopra il cornicione sono in tondi le figure sedute degli evangelisti con
i rispettivi simboli, intervallate dalla illustrazione di litanie mariane nelle
vele e da citazioni scritturali nelle lunette sottostanti. Partendo dalla
controfacciata a sinistra sono Giovanni, Marco, di fronte Luca e Matteo. Il
cielo di ogni navata laterale è decorato da tre tondi posti tra una volta a
crociera e l’altra e raffiguranti santi
seduti o inginocchiati. A sinistra della controfacciata sono Antonio abate,
Giuseppe con Gesù bambino sulle ginocchia e Francesco d’Assisi; a destra,
partendo dal presbiterio, Abbondio, patrono della diocesi di Como, Anna con la
Madonna e Luigi Gonzaga. Chiudono alle estremità coppie di teste alate in
lunette.
Durante la decorazione
ottocentesca furono anche applicate sei cariatidi in stucco a bassorilievo tra
il cornicione e i capitelli.
Tra gli arredi lignei, oltre alla
cornice a portale della primitiva ancona di impianto tardomanieristico,
eseguita nel 1606 in legno intagliato e dorato e tuttora addossata alla parete
di fondo, vanno segnalate le statue lignee del 1630 rappresentanti le due
ragazze inginocchiate davanti alla Madonna con bambino in vesti policrome,
anche se, stando al racconto della pergamena, la Madonna fu descritta dalle
veggenti senza bambino e in vesti bianche.
Un’opera unica, quasi un grande
carretto siciliano, è l’organo. Nel 1667 un comitato composto da otto persone
(quattro di Gordona, tre di San Giacomo e uno di Lirone) si era impegnato a
concorrere alla spesa per “fare, ò far edificare un organo musicale in detta
Chiesa della Madonna di Valle”. Il lavoro era finito nel 1673 e fu in gran
parte finanziato dagli emigranti a Palermo, come dice la scritta dipinta in un
ovale al centro della balconata: “1673 / Organo / eretto, & offerto / alla
B. V. M. / dall’industriosa pietà/ de / confratelli / della schola / di /
Palermo. / et trasportato / 1759”. In origine era posto sotto l’arco a sinistra
entrando dalla facciata, sorretto da quattro colonne e solo nel 1759, come
dicono le due ultime righe aggiunte all’epigrafe seicentesca, fu addossato alla
controfacciata, imponendo la chiusura del rosone centrale, sostituito da due
finestre rettangolari e simmetriche a lato.
Degno di nota è il grande
crocefisso in legno scolpito e dipinto, posto al centro dell’arco trionfale,
poggiante sulla longarina inscatolata in legno dorato e dipinto con la scritta:
“Recogitate eum qui talem sustinuit / a peccatoribus contradictionem” (Ebrei
12,3). In due ovali alle estremità si legge: “Anno Do[mi]ni 1643 / ali 19 lulio
F. Pozzo” a sinistra, “Li devoti della valle / habitanti in Como F.[ecero]
F.[are]” a destra.
Mentre i due confessionali
addossati alle pareti laterali in legno di noce, uno dei quali porta intarsiata
la data 1716, sono di linee molto semplici, più elaborata appare la coppia
addossata alla controfacciata sotto l’organo, simmetricamente all’ingresso.
Quello di sinistra fu realizzato nel 1759, quando fu trasportato l’organo,
mentre quello di destra è del 1763. Interessante anche l’armadio di sacrestia
in noce intagliato e intarsiato del 1717.
Se nei santuari è frequente
trovare il trionfo dei marmi, in questo di Gallivaggio è la pietra locale a
imporsi, spesso appena levigata, com’è quella delle montagne incombenti
all’esterno in uno dei punti naturalmente più severi della val San Giacomo
(oggi si preferisce chiamarla valle Spluga dal nome del passo a nord che
collega alla Svizzera). Proprio attorno al masso di granito, sul quale le
ragazze dissero di aver visto la Madonna, sorse la chiesa. Come le lastre del
pavimento della navata e i portali, le sei colonne monolitiche che dividono le
navate sono in pietra locale. In marmi policromi è invece l’altare maggiore,
che si deve ai marmorari Giudice di Saltrio (1741).
In facciata il portale centrale fu
ricavato nel 1664 da un masso caduto quattro anni prima a lato della casa
parrocchiale, che allora era a est del sagrato. La statua in marmo bianco della
Madonna nell’edicola in pietra ollàre al centro e quelle delle fanciulle
inginocchiate sulle cornici del timpano spezzato sono state donate dagli
emigranti sulle rive del lago di Como nel 1665. Sopra i due portalini a lato
furono collocati nel 1761 un elaborato scudo con il monogramma di Maria e nel
1784 una pregevole cimasa in pietra ollàre raffigurante il re Assuero in trono,
assistito da un soldato per parte in atto di presentare la moglie Ester,
inginocchiata a sinistra e sorretta da un’ancella.
Ricco è l’arredo di paramenti e di
argenteria. Tra i primi si segnala il parato in terzo, costituito dalla pianeta
e dalle due tunicelle in ormesino bianco ricamato in oro e seta policroma con
medaglione in basso raffigurante la Madonna di Gallivaggio, dono degli
emigranti a Palermo nel 1713, insieme a un paliotto in tutto simile. Pregevoli
sono due stendardi processionali: l’uno in seta ricamata e dipinta,
raffigurante su un lato la scena dell’apparizione e sull’altro l’ostensorio, fu
eseguito per 100 gigliati nel 1781 a Milano; l’altro, con la Madonna del
rosario e santa Marta, fu donato dagli emigranti a Roma nello stesso secolo.
Fra gli oggetti di argenteria
spiccano una grande lampada pendula seicentesca, un calice coevo in argento
dorato e sbalzato, al cui piede è rappresentata la scena dell’apparizione tra i
santi Giorgio e Giacomo, una pisside giunta da Palermo nel 1755, una croce
processionale donata dagli emigranti a Roma nel 1771, le cartegloria inviate dagli
stessi nel 1753, le ampolline rivestite in argento, giunte da Venezia nel 1708.
Infine si conserva un messale rilegato in pelle rossa con ricche impressioni in
oro e applicazioni in argento, dono della “fraterna” di Venezia nel 1760.
La scena dell’apparizione e il
santuario di Gallivaggio sono stati ritratti nei secoli XVIII e XIX in una
serie di stampe, a partire dall’incisione in rame, eseguita da Johann Georg
Hertel di Augsburg in occasione dell’incoronazione del 1742, fino a quella di
Giuseppe Pozzi di Roma, uscita per la stessa ricorrenza. Riprese il tema,
probabilmente un secolo dopo, il pittore chiavennasco Matteo Vanossi, allievo
di Francesco Hayez a Milano.
Dello stesso secolo, precisamente
del 1789, è la più antica stampa paesaggistica di Gallivaggio: un’acquatinta
disegnata da John Smith e incisa da Samuel Alken, uscita per la prima volta a
Londra nel 1789.
Le altre stampe sono invece
ottocentesche. Innanzi tutto l’acquatinta colorata disegnata dal vero e incisa
da Federico Lose nel 1824 a Milano presso Francesco Bernucca; poi la litografia
disegnata da G. C. Esq. e incisa da Frederick Calvert, uscita due anni dopo a
Londra presso William Cole.
Nel 1827 veniva pubblicata a
Parigi un’altra bella litografia di Henry Gaugain su disegno di Edouard
Pingret. Seguì nel 1835 a Zurigo l’acquatinta disegnata da Johann Iakob Meyer e
incisa da Rudolph Bodmer. Inglese è invece la litografia del 1841, pubblicata a
Londra da Charles Hullmandel, che eseguì pure i disegni incisi da I. D. Clennie.
L’esistenza di varie stampe che
riproducono il paesaggio di Gallivaggio con il suo santuario mariano si spiega
anche con la posizione geografica, trovandosi su una strada che fino a tutto
l’Ottocento fu un’arteria importante per il passaggio delle merci e dei
passeggeri tra la pianura Padana e il centro Europa.
* Tutte le notizie sono tratte da
GUIDO SCARAMELLINI, La Madonna di
Gallivaggio. Storia e arte, Gallivaggio 1998, pp. 162, con molte illustrazioni a
colori, ampia bibliografia (176 titoli) e indice analitico.