L'ARTE PER LA MADONNA DELLE
GRAZIE DI PENNABILLI (di PierGiorgio Pasini)
Ogni possibile
riflessione sullimmagine della Madonna delle Grazie venerata nella chiesa di San
Cristoforo di Pennabilli deve tenere conto fin dallinizio di due fatti. Un
dato di stile: il dipinto ha tutti i caratteri del gotico internazionale come si è
sviluppato nelle Marche settentrionali ad opera di artisti locali e non locali durante la
prima metà del Quattrocento; e un dato documentario che permette di precisarne meglio la
cronologia: laltare ad essa relativo è stato consacrato il 16 novembre 1432 da
Giovanni Secchiani (Seclani), vescovo del Montefeltro. La convergenza di questi due
elementi ci permette di escludere che lattuale immagine possa risalire al XIII
secolo, come volevano gli storici di Pennabilli sulla scorta di una presunta iscrizione
del 1222. Se pure è esistita, quellantica Madonna è stata rinnovata,
cioè completamente rifatta, per esigenze funzionali o devozionali, intorno al 1432.La
Madonna delle Grazie di Pennabilli fa parte, e anzi faceva parte, di un complesso
pittorico più vasto; si trovava al centro di tutta una parete figurata della quale
è conservato un ampio frammento, solo ora veramente leggibile grazie al recente restauro.
Per comprenderne il carattere occorre, naturalmente, tener conto di tutto linsieme,
che va immaginato in una chiesa o comunque in una cappella modesta, di forme gotiche, col
pavimento più basso dellattuale. Nellambiente originario le figurazioni, come
stipate sulla parete, dovevano incombere con un effetto di solennità ben maggiore di
quanto non appaia ora, ridotte come sono a frammenti in buona parte scorticati, disturbati
da un insieme di elementi posteriori (peraltro preziosissimi) e diluite nello spazio vasto
e un po informe delledificio odierno.Reintegrando idealmente la composizione
si può almeno in parte ricuperarne il solenne effetto originario. Possiamo
compiere questa operazione, sia pure con molti margini di incertezza, tenendo presente
unopera che ha molte affinità esterne con la nostra: la parete di fondo della Cella
di Talamello, dipinta da Antonio Alberti e consacrata nel 1437. Sarà anzi importante
sottolineare che essa è stata commissionata e consacrata da Giovanni Secchiani, lo stesso
vescovo feretrano che nel 1432 aveva consacrato laltare della Madonna di Pennabilli.
Questo fatto, insieme alla sua prossimità cronologica e geografica (ed anche alla
presumibile grandezza originaria), ne fa un ineludibile e prezioso elemento di confronto.
In entrambe le opere le pareti sono divise orizzontalmente in due parti quasi uguali, in
alto a contenere la scena dellAnnunciazione, in basso un Madonna col Bambino
affiancata da Santi. In entrambe la testa nimbata della Madonna invade lo scomparto
soprastante, quasi a voler unire le due parti, e soprattutto a voler accentuare la
centralità ideale e materiale della figura di Maria, posta in primo piano come
protagonista assoluta. Si noti tuttavia che la Madonna di Talamello è una «Madonna
dellumiltà», seduta in terra su un semplice cuscino e in vesti relativamente
dimesse, secondo uniconografia molto amata dai Francescani; non a caso il
committente era il vescovo Secchiani, francescano appunto, che compariva a sinistra (e
questa sua presenza va sottolineata anche per spiegare latteggiamento insolitamente
vivace di Gesù); mentre quella di Pennabilli, commissionata dagli Agostiniani, è una «Madonna
in maestà», cioè in trono come una regina. Nel dipinto di Pennabilli le figure
vestono costumi moderni
di singolare ricchezza, ricamati
doro e dargento e tagliati in damaschi fioriti, e si dispongono rigidamente, o
solo di profilo o solo di fronte, secondo moduli arcaici appena attualizzati sui modelli
dei fastosi cerimoniali delle corti principesche: quindi gli angeli musici sono vestiti
come paggi, i santi di fianco al trono (purtroppo perduti) dovevano essere compunti
come cortigiani, mentre Gesù viene esibito come un principe dalla vestina foderata di
raso. Il risultato è una schematica scena di corte, insieme celeste e terrestre, in cui
si perde il senso drammatico del gesto di Maria che consegna al Figlio il cardellino,
simbolo della sua umanità e della sua passione futura. Anche per comprendere in pieno la
fastosità di queste immagini occorre fare un piccolo sforzo di immaginazione, inteso a
reintegrarle idealmente nei loro colori: la veste della Madonna era laminata
dargento, come dargento erano gli strumenti musicali degli angeli; il suo
mantello azzurro era foderato di bianco e trapunto da lettere auree che ne formavano il
nome, e inoltre decorato nei bordi da scritte gotiche dorate, ora solo parzialmente
leggibili. Una sontuosità straordinaria, dunque, che trova un parallelo, più che in
altri affreschi, soprattutto negli stupendi polittici veneziani importati in molti centri
marchigiani e romagnoli fra Tre e Quattrocento. Sulla Maestà è raffigurata lAnnunciazione,
quasi a sottolineare linizio dellIncarnazione e della missione di Maria
come madre di Dio e dellumanità redenta; lattuale restauro ne ha permesso il
parziale recupero, ma sono perdute (e in parte nascoste) e le tradizionali quinte
architettoniche alle spalle delle figure, e la colomba dello Spirito Santo e il Padre
Eterno, che si affacciavano nel cerchio cosmico sovrastante, a dominare tutto
laffresco e tutto lambiente. Anche questa scena, svolta secondo ritmi e
cadenze che privilegiano linee fluenti e piatte composizioni cromatiche, ha un tono
cortese, accentuato dalle stoffe preziose i cui ricami dargento non si piegano e non
scorciano, dal recinto di canne fiorito di rose, dal vivace scontro del cane e del gatto;
simboli molto usati in questo periodo, ma chissà quanto ancora capaci di comunicare
qualcosa ai fedeli, che probabilmente già li consideravano, come noi, soprattutto
piacevoli elementi naturalistici. Lanalogia dellinsieme compositivo negli
affreschi di Pennabilli e di Talamello è troppo stringente per essere casuale. Ma nelle
sue linee programmatiche essa va imputata, più che ai pittori, ai committenti, che
evidentemente si servivano delle stesse fonti o accoglievano gli stessi suggerimenti:
potrebbe essere stato il vescovo Secchiani a dettare i temi di entrambe le opere.
Lanalogia, comunque, non si ferma allimpianto: anche i dati di stile offrono
qualche corrispondenza. Ma qui a Pennabilli si avvertono più forti le suggestioni
settentrionali, cioè lombarde e venete, un colore più smaltato e forme più massicce, e
soprattutto un certo impaccio, forse accentuato dallo sfarzo decorativo così
insistentemente ricercato; si riscontrano anche contrasti fra limpianto compositivo,
volutamente solenne e monumentale fino a divenire arcaico, ed una realizzazione in alcuni
tratti, e specialmente nei particolari, affaticata e incerta. Si noti per esempio
lampio svolgersi del manto della Vergine, così naturale e solenne in contrasto con
il profilo piatto degli angeli musicanti e laffaticato scorciare delle loro mani.
Anche la frontalità assoluta della Madonna e di Gesù risulta piuttosto arcaica:
certo non fu mai particolarmente evitata dai pittori tardo gotici marchigiani, e fra gli
altri lAlberti in più di un caso se ne è compiaciuto, ma qui appare
eccessiva nella sua staticità. I contatti con lAlberti non mancano, anzi sono
numerosi; sembra trattarsi però di analogie di gusto e anche di influenze dirette, non di
identità di mano. Lautore andrà ricercato fra i numerosi artisti attivi in questo
periodo nelle Marche, ancora poco conosciuti o affatto sconosciuti. Potrebbe trattarsi per
esempio del padre di Giovanni Antonio da Pesaro, recentemente risuscitato
dalle ricerche di Paride Bernardi: cioè di Gigliolo Bellinzoni da Parma, di cui non
conosciamo nulla, ma fin dal secondo decennio del secolo molto attivo a Pesaro e per i
Malatesti. Leducazione padana, larea di attività, le relazioni di lavoro, i
committenti di questo artista potrebbero rendere suggestiva lipotesi di una sua
attività pennese, eventualmente in collaborazione con la bottega dellAlberti; ma
sia ben chiaro che questa è appena unincerta e anzi fantasiosa ipotesi, che si può
avanzare solo per alcune labili analogie con lo stile del figlio. Dunque gli unici
elementi che mi sembra si possano dare per certi sono lappartenenza dellopera
agli anni trenta del Quattrocento e a quel circuito di cultura tardo gotica padana o
comunque influenzata dalla padània che investì fortemente le Marche settentrionali ed
ebbe fra il Marecchia e il Metauro larga ospitalità, conservandosi vitale e influenzando
per alcuni decenni lo sviluppo della cultura locale, confortata dallarrivo di
prodotti «di lusso» soprattutto lombardi e veneti. Anche i costumi così elaborati degli
angeli e del Bambino mi sembra rientrino nella tradizione cortese di quella cultura e
rimandino a mode settentrionali presto generalmente diffuse: basterà confrontarli per
esempio con alcune figure di Gentile da Fabriano o di Masolino, contemporanee alle nostre,
per rendercene persuasi. Per quanto riguarda labito di Gesù, sembra proprio la
veste cerimoniale di un principe; ma sarà appena il caso di ricordare che, sia pure in
fogge diverse, vesti cerimoniali lussuose e ricercate sono indossate da molti Gesù
marchigiani (da quelli di Allegretto Nuzi e di Gentile da Fabriano a quelli di Arcangelo
di Cola). Ora la parte inferiore e centrale del nostro affresco appare particolarmente
consunta: cioè lo specchio del trono, che era decorato con piccole geometrie cosmatesche
di gusto trecentesco, le parti inferiori delle vesti degli angeli, i piedi del Bambino e
soprattutto il manto della Vergine, che ha perduto gran parte dellazzurro
sovrapposto al tradizionale «morellone» di fondo e quasi tutte le decorazioni auree, ed
inoltre il colore della sua fodera bianca. Il motivo può essere ricercato in una serie di
devote manutenzioni consistenti in ripetuti lavaggi intesi a ripulire la
superficie dal fumo delle candele e delle torce; questi lavaggi hanno a poco a poco fatto
scomparire i colori più delicati, le rifiniture eseguite in oro e a tempera, e
specialmente la biacca con cui era modellato tutto il rovescio del manto.
Oltre ad
essere pulita limmagine deve essere stata di tanto in tanto
rinfrescata, o ritoccata: uno di questi interventi è ricordato come eseguito
a spese della comunità nel 1475 da Pier Giovanni da Piandimeleto, fratello del più noto,
ma egualmente sconosciuto, Evangelista: forse rinfrescò le dorature o ne applicò di
nuove, e ridipinse a secco alcune parti consunte o cadute, ma non credo modificasse
sostanzialmente il dipinto, il cui assetto invece subì un profondo cambiamento dopo i
miracoli del 1517 e 1522. Infatti subito dopo lultimo miracolo la chiesa di San
Cristoforo, divenuta angusta per laccresciuto concorso dei fedeli, venne rifatta
più grande. Della chiesa originaria solo la parte di muro con la prodigiosa
raffigurazione venne salvata; ma essa aveva bisogno di essere rafforzata dal punto di
vista statico, mentre il dipinto aveva bisogno di una adeguata velarizzazione
architettonica. Il problema fu risolto includendo muro ed immagine in una splendida
edicola di forme moderne, cioè pienamente rinascimentali, che permetteva di accentrare
lattenzione unicamente sulla Madonna col Bambino. Due iscrizioni, nel fregio
e sul lato sinistro, ci permettono di datarne la costruzione al 1528. Per quanto
riguarda la tipologia del nuovo monumento, essa è ricca di suggestivi rimandi, dalle pergulae
e dagli archi trionfali pagani, fino ai cibori e ai baldacchini degli antichi altari
cristiani. Ma va sottolineato che fra Quattro e Cinquecento sono numerose le cappelle,
anzi i tabernacoli mariani di questo tipo costruiti allinterno di edifici sacri. Ne
ricordo solo due, abbastanza vicini dal punto di vista cronologico, geografico e
stilistico, oltre che tipologico: quello della Madonna del Piratello di Imola, databile
allinizio del Cinquecento, che offre elementi toscani (in esecuzione lombarda)
desunti in buona parte dal tabernacolo fiorentino di San Miniato al Monte, attribuito a
Michelozzo; e laltare della Madonna di Pianetto di Galeata, del 1534, e perciò
quasi contemporaneo al nostro, realizzato in forme più popolaresche, ma di simili
proporzioni e dalla identica collocazione allinterno della chiesa, che credo dovuta
a necessità o preferenze liturgiche. In questa serie potrebbero essere richiamati per le
loro analogie formali molti altri sacelli, dallaltare di Santa Maria Maggiore a
Spello (eseguito da Rocco da Vicenza nel 1515), a quello della Madonna del Calcinaio
presso Cortona (eseguito da Andrea Sansovino e Bernardino Covatti nel 1519); ma è inutile
allungare lelenco dei possibili riferimenti, che potrebbero invece includere
unaltra classe di monumenti (e forse dovrebbero, dato che la Madonna
viene invocata anche come Janua Coeli): cioè i protiri che impreziosivano le
facciate e proteggevano le porte delle chiese rinascimentali, tanto numerosi nelle Marche.
E non potrà sfuggire la somiglianza in particolare con quello di San Domenico di Urbino,
che, pur vecchio di molti decenni, costituiva ancora un prototipo ammirato e imitato. Ma
dal punto di vista architettonico e decorativo un rimando generico allarte urbinate
nel suo insieme sembra sufficiente e pertinente, e così evidente che non avrebbe molto
senso insistervi. Solo occorrerà forse precisare: a quella dei sempre attivi
cantieri ducali nei decenni fra Quattro e Cinquecento, ornata da fregi di lapicidi
lombardi, da elementi epigrafici di straordinaria raffinatezza e modellata su un dolce,
aureo eclettismo. Allambiente della corte ducale ci riporta anche la nuova
decorazione pittorica; anzi, nel suo scompartirsi armonioso, nel suo attento incastro
geometrico di finte profilature marmoree, nel suo illusionistico aprirsi di cortine, di
oculi, di nicchie rosate, nei colti richiami allantichità e infine nel dolce
classicismo delle figurazioni, richiama con precisione lattività delle maestranze
impegnate allImperiale di Pesaro su commissione di Francesco Maria della Rovere e di
Eleonora Gonzaga. In particolare vi si avvertono suggestioni raffaellesche che fanno
pensare a Raffaellino del Colle, specialmente per lAnnunciazione del fianco,
dai colori teneri, dal disegno nitido e dallesecuzione fine e sorvegliata. Ma
forse lautore andrà cercato fra collaboratori minori, dato che
lesecuzione delle altre parti non sembra allaltezza
dellideazione raffinatissima. Si noti che anche nel nuovo assetto decorativo si
cercò di non tradire o diminuire i significati della composizione originaria: la figura
del Padre Eterno fu dipinta nella lunetta a dominare linsieme, sovrastata dalla
Colomba dello Spirito Santo al centro dellimbotte; e lAnnunciazione venne
dipinta sul fianco esterno meglio visibile del nuovo tabernacolo. La composizione anzi fu
arricchita di significati: infatti nellimbotte sono stati inseriti i volti dei
progenitori, a significare linizio dellumanità, il peccato originale e
lattesa della Redenzione, che ha il suo prologo nellAnnunciazione e la sua
attuazione nellIncarnazione. Le figure protagoniste dellaltare, cioè
la Madonna e il Bambino, dovevano essere racchiuse da una grande cornice lignea di cui si
può ricuperare il profilo esterno seguendo i limiti dellaffresco cinquecentesco, e
di cui si può immaginare la parte superiore rettilinea, idealmente ricostruibile sulla
base delle cornici dipinte lateralmente. Non si trattava certamente di un elemento
superfluo o secondario, ma necessario ad isolare limmagine miracolosa e ad
articolare maggiormente dal punto di vista formale la composizione, modesta e tuttavia
notevolmente complessa nelle sue scenografiche, illusionistiche stratificazioni, per le
quali forse non sarebbe inutile evocare il nome di Girolamo Genga. Liscrizione
principale sulla fronte del monumento attribuisce classicamente la decisione di erigere il
sacello al «Senato e Popolo Pennese», e quella sul fianco cita i priori e i sindaci
della confraternita. Che lopera sia stata promossa ed accuratamente
progettata in loco è dimostrato dalla cura con cui si cercarono di recuperare tutti i
temi del vecchio affresco e dalla pretenziosità classicistica delle iscrizioni scolpite e
dipinte, di disegno raffinato quanto di costruzione approssimativa ed oscura. Tuttavia
credo che la corte urbinate - fra laltro anchessa beneficiata dai miracoli
antimedicei della Madonna di Pennabilli - non abbia fatto mancare il suo
appoggio, il suo consiglio ed il suo contributo allopera: e gli scacchi neri e
dorati nei pennacchi dellarco esterno sembrano alludere discretamente
allautorevole presenza dei duchi. Ma a renderci sicuri di questa partecipazione è
lo stile stesso dellopera, che in un certo senso costituisce unanomalia nella
tradizione pennese. Non dimentichiamo infatti che fino a quel momento le opere pittoriche
di maggior peso erano state commissionate a Bimini, alla bottega dei Coda, che pochi anni
prima, nel 1520, aveva inviato a Pennabilli un bel polittico ed a Torricella un trittico
a sportelli mobili, firmati da Benedetto Coda; anche se modeste dal punto di vista
artistico, entrambi erano opere importanti e comunque ufficiali, perché si fregiavano
degli stemmi delle due comunità. Nellintervento dei duchi comunque si fosse
conformato si deve vedere, oltre che un atto di devozione e di gratitudine verso la
Madonna, un preciso atto politico, ed anzi di politica culturale, inteso ad allargare
limmagine, linfluenza e quindi la presenza del governo nel territorio anche
attraverso un gusto particolare, alimentato da artisti di corte. Non è un caso, forse,
che pochi anni dopo un altro pittore dellImperiale, Francesco Menzocchi, fosse
mandato a dipingere un polittico importante in un territorio confinante ed alleato, cioè
a San Marino, a gara ancora una volta con la bottega dei Coda, artisti di altro territorio
e di altra cultura. Daltra parte laltare della Madonna delle Grazie non
costituisce un fatto isolato dal punto di vista stilistico, perché nella zona esistono
parecchie altre opere dello stesso periodo riecheggianti il Rinascimento urbinate: per
esempio il presbiterio, costruito o sistemato nel primo decennio del secolo, di Santa
Maria dAntico; Santa Maria dellOliva a Maciano, con il portale datato al 1529
ed elementi architettonici e decorativi in pietra, allinterno, del 1569; in paese la
chiesa dellospedale della Misericordia, di cui è superstite la bellissima lunetta
in pietra, sul portale, anchessa di gusto urbinate. Dellassetto di altre
costruzioni di questi anni, nuove come il monastero di SantAntonio della Penna, o
rinnovate, non sappiamo praticamente nulla, a cominciare dalla stessa chiesa di San
Cristoforo in cui si trova la nostra Madonna. Con questo vorrei sottolineare che
limpresa della nuova edicola, pur eccezionale per quanto riguarda il livello,
partecipa ad un clima culturale particolare, che definirei ufficiale, che si cercava di
radicare nella zona grazie a interventi diretti della corte (o di cortigiani: gli Oliva,
nel nostro caso), o indiretti, cioè con consigli, suggerimenti, consulenze di artisti e
artigiani ducali. Sembra, però, che localmente non ci si sia mai sentiti troppo legati da
questi dettami di politica artistica. Un esempio di tale indipendenza può essere
segnalato fin dal 1533, quando per la commissione di una tavola raffigurante San Sireno
(un santo collegato dai pennesi proprio al culto della Madonna delle Grazie) ci si
rivolse, seguendo una vecchia consuetudine, alla solita bottega riminese dei Coda.
Naturalmente non sappiamo dire se si trattò di una scelta polemica o semplicemente di uno
dei tanti sintomi della gravitazione naturale di Pennabilli verso la bassa valle del
Marecchia. Certo anche in seguito, nel corso del XVI e XVII secolo, vi troviamo opere
darte provenienti dalla Romagna, dallUmbria e dalla Toscana: ma soprattutto vi
troviamo opere marchigiane. Marchigiano, anche se con notevoli influenze emiliano
romagnole, sembra il diligente pittore che intorno alla metà del XVI secolo ha dipinto la
pala della Resurrezione in questa stessa chiesa di San Cristoforo, da tenere
particolarmente presente perché alcuni dei santi che vi sono raffigurati potevano essere
quelli originariamente dipinti accanto alla Madonna delle Grazie, cancellati nel 1528
durante la costruzione delledicola. E perché appartiene alla stessa corrente
dellartista che ha affrescato le scene eucaristiche di fianco al nuovo
tabernacolo della Madonna, scoperte con la recente rimozione delle parti lignee e con
lattuale restauro, ma che non hanno niente a che fare con esso né dal punto di
vista concettuale, né da quello formale. Il Marchigiano è anche il pittore che ha
dipinto, sempre per questa chiesa, una splendida e sciupata Adorazione dei Magi che
si dimostra ricca di elementi di cultura simili a quelli del pittore delledicola
della Madonna, per quanto maturati dal tempo e da contatti nordici: sembra molto vicino al
fanese Giuliano Presutti nella sua attività tarda: la sua SantOrsola di
Ancona del 1554, infatti, si confronta abbastanza bene col nostro dipinto, che dovrebbe
risalire alla metà del secolo.
Dal 1568 siamo molto meglio informati
sulle vicende artistiche che ruotano attorno alla nostra immagine miracolosa grazie ad
alcuni libri superstiti della compagnia della Madonna delle Grazie, diligentemente
esplorati per questa occasione da Girolamo Allegretti, dei cui appunti liberalmente
concessi mi avvalgo ampiamente. Fra il 1569 e il 1571 vi troviamo annotata tutta una serie
di piccoli lavori di restauro e di doratura compiuti allaltare da un pittore
pennese, Piero Andrea, che dipinse anche una cortina posta davanti alla Madonna. Questo
pittore non è ignoto alla letteratura locale, che lo colloca intorno alla metà del
Cinquecento, gli dà il cognome di Saraceni ed il soprannome di Fabbri, lo dice scolaro,
naturalmente «eccellente», di Tiziano e gli attribuisce opere a Venezia, Ravenna,
Rimini, San Leo e Pennabilli. Tutte ignote, purtroppo, tanto da far sospettare un qualche
equivoco (con il ben più celebre pittore veneziano Carlo Saraceni, per esempio). In ogni
caso dai nostri documenti risulta soprattutto un decoratore, un piccolo pittore artigiano.
Certo non lunico del paese, dove lo affianca un Claudio Saraceno, forse fratello o
figlio, anchesso decoratore, che muore nel 1601. Cè poco da segnalare fino
allinizio del secolo, quando troviamo pagamenti per l«ornamento, ovvero
ancona della Madonna» ad un certo maestro Clemente da Santarcangelo. Il lavoro fu
eseguito a Santarcangelo e finito di trasportare a Pennabilli il 5 novembre 1600. A
Pennabilli fu incaricato di decorarlo e dorarlo il maestro Claudio Saraceno appena citato.
Fortunatamente questopera è giunta fino a noi, anche se in non buone condizioni:
un auspicabile restauro, ormai indispensabile per la sua conservazione, sarebbe utile
anche per verificare se le belle decorazioni - costituite da un arabesco dipinto in blu e
rosso sulloro - sono ancora quelle eseguite dal Saraceni. Si tratta di una grande
ancona lignea interamente dorata; essa sostituiva la cornice rinascimentale e nascondeva
completamente gli affreschi, ormai considerati vecchi e inadeguati, perchè riempiva tutta
la parete di fondo delledicola. È fastosa e complicata, di gusto tardo manierista
nella confusa partizione e frantumazione degli ordini classici, ma piacevole e ricca. Il
suo autore è uno dei tanti piccoli maestri, quasi subito dimenticati, attivi in quel
periodo in molti centri della Romagna e delle Marche, partecipi di quel grande momento
veramente internazionale che fu lultimo manierismo. Ora, privata da un furto delle
statuette che decoravano le sue due piccole nicchie, è provvisoriamente collocata
nellabside della chiesa di San Cristoforo. Non sappiamo per quali motivi i Pennesi
si sono rivolti ad un artista di Santarcangelo, ma probabilmente in quel momento egli era
uno dei più famosi della zona: purtroppo non sappiamo niente di lui e delle sue opere,
tranne che aveva appena eseguito un lavoro analogo anche per la chiesa abbaziale dei
Benedettini di Cesena. Certo non si servirono di lui solo per comodità; del resto sembra
che le loro scelte non siano mai state di comodo. Lo dimostra anche il fatto che per una
copertina ricamata da porre davanti alla Vergine, pochi anni dopo, si siano rivolti
addirittura a Napoli, senza preoccuparsi per laggiunta di spese e di fastidi. Nel
1616 da Napoli, appunto, arrivò la prima delle «vesti» documentate della Madonna, tutta
finemente ricamata doro su tela dargento, con un policromo Padre Eterno
benedicente fra le nubi e rabeschi sottili e sinuosi di grande effetto. Posta
davanti allaffresco permetteva di vedere solo i volti delle due figure divine, un
po come le copertine dargento delle icone, secondo un uso largamente diffuso,
inteso a proteggere e nello stesso tempo ad arricchire limmagine. A questa data il
monumento si poteva considerare veramente completo; era anche già circondato dalla bella
cancellata ancora esistente, con motivi a cuore (e a gigli) di rinascimentale eleganza,
eseguita nel 1606 probabilmente da un Francesco magnano; inoltre nel 1607 era stato
decorato con un fregio, forse applicato nellimbotte dellarco, del pittore
Marco Bistolli, un giovane confratello incaricato anche di dirigere lapparato per il
«venerdì bello» del 1608. Linsieme doveva avere un aspetto armonico e sontuoso:
ma non abbastanza per i confratelli, che per abbellire ulteriormente laltare della
loro Madonna miracolosa tenevano docchio quanto si faceva di meglio nelle chiese dei
dintorni. Lattenzione era rivolta particolarmente alle grandi macchine lignee,
scintillanti di dorature, che rivestivano interi oratori, come quello del Nome di Dio a
Pesaro; o costruite dietro agli altari per inquadrare le nuove pale, come quella
attualmente allaltare del Rosario in cattedrale; oppure ai grandi tabernacoli che
venivano costruiti al centro delle tribune, in forma di templi sontuosi; o ancora alle
mostre dorgano erette nelle chiese maggiori, come quella di San Cristoforo, del
1587. Nel 1621 si chiedeva al maestro che aveva fatto un tabernacolo a Maciano (non
sappiamo però in quale chiesa) di compiere un sopralluogo allaltare della Madonna
per vedere se era possibile accrescerne o migliorarne lornato. Purtroppo non
sappiamo niente di questo maestro, nè della sua opera, né dei consigli da lui dati ai
priori; ma nel libro della compagnia sono annotate subito dopo alcune spese per ricercare
pietre a Monte Boaggine «per lornamento dellaltare», e nel 1623 altre
riguardanti linizio e la prosecuzione (anche grazie ad un buon lascito)
dell«aumento» dellaltare. Ma quale maestro vi stava lavorando? Lo stesso che
aveva eseguito lo sconosciuto tabernacolo di Maciano? Forse si trattava di un maestro
di Foligno, perché nel verbale della congregazione del 2 febbraio 1625 troviamo
annotato: «Fu ricordato che si faccino venire le statue per i nicchi et altri ornamenti
non perfetti dal maestro intagliatore di Fuligno».
Laccrescimento dellornato
consisteva sostanzialmente in due ali lignee, sorrette da colonne scanalate e tortili, che
allargavano sensibilmente il monumento; e in alto da un tamburo poligonale con cupola e da
una balaustra, che davano slancio allinsieme. Il tutto in legno, con nicchie,
statue, cartelle in rilievo, pitture ornamentali e dorature. Le dorature interessarono
anche lornato cinquecentesco in pietra, che veniva così a fondersi, ad annullarsi
nella nuova architettura. Dopo questi lavori nessuna delle pitture rinascimentali era più
visibile; anche ciò che rimaneva in vista delle scene eucaristiche dipinte sulla parete a
fianco del monumento venne scialbato in quanto mutilo e quindi insignificante, e in quanto
dannoso alla visibilità del «nuovo monumento»: infatti si può proprio parlare di un
monumento nuovo, del tutto in linea con il gusto seicentesco e con le esigenze della
religiosità controriformistica. Ledicola ora si è trasformata nel simbolo del
tempio di Salomone che custodisce larca dellAlleanza. In alto trionfa la Donna
dellApocalisse, regina e mediatrice fra cielo e terra; ai lati dellarco due
statue rappresentano Santa Monica (? ) e Santa Maria Maddalena, forse in quanto immagini
simboliche di fiducia e di pentimento, e ad esse sono sottoposti gli stemmi della
confraternita; al centro dellarco, in posizione dominante, compare però lo stemma
della comunità; mentre sul fianco sinistro una scritta a lettere doro riassume i
prodigi dellimmagine, sul fianco destro unaltra ricorda la fondazione del
«sacello» nel 1222, il suo restauro «dopo» il 1523, il suo ampliamento nel 1623, al
tempo di Urbano VIII e di Francesco Maria Della Rovere: cioè il primissimo tempo di un
grande pontificato, lultimissimo tempo di un glorioso ducato. Nel suo insieme il
nuovo monumento non ha confronti in zona, né per forma, né per qualità, né per
ricchezza. Nelle Marche posso ricordare per qualche analogia solo il fastoso armadio per i
libri sacri della sinagoga di rito italiano di Ancona. Credo che lartista fosse di
educazione romana: a Roma rimanda anche il manierismo delle due belle statue di Santa
Monica e della Maddalena, di salda impostazione plastica, di elegante movimento e
preziosamente dipinte. A proposito di pitture e dorature, questa volta non sappiamo se
erano state eseguite in loco, come nel caso dellancona, ma è probabile; comunque
anche le decorazioni pittoriche sono di buona esecuzione tecnica e di grande bellezza; le
grottesche dei fianchi formano come un prezioso tessuto dai colori caldi, armoniosi e
vivaci. Dopo pochi anni i Confratelli si mettono in movimento per costruire un
soffitto, un cielo in cui far comparire la figura del Padre eterno, necessaria per
completare il senso del monumento {ed infatti sempre presente fino a trentanni
prima, quando era stata nascosta dallancona). Nel 1634 nel libro della compagnia
troviamo annotato: «Si veda di fare il soffitto sopra lornamento della Madonna
secondo il disegno inviato dal maestro Orazio Borioni intagliatore de Borgo San
Sepolcro». Lanno successivo il soffitto era già pronto; i lavori di doratura e
pittura durarono fino al 1636. Si tratta di un vero capolavoro di intaglio e di scultura
che rimanda soprattutto ad analoghe opere romane. Mentre gli angeli hanno uneleganza
raffinata e movenze classicheggianti, la grande figura del Padre Eterno, argentata e
dorata, mostra ancora un rude plasticismo e asprezze arcaizzanti che la apparentano
vagamente a quelle del soffitto delloratorio del Gonfalone di Fabriano, eseguito nel
1643 dal francese Leonardo Scaglia, molto attivo fra Umbria e Marche . Chi fosse
lintagliatore Orazio Borioni che ne aveva fatto il disegno, e al quale credo debba
essere riferita anche lesecuzione, non sappiamo. Secondo i registri della compagnia
a lui spetta una proposta «di accrescimento delle statue intorno alla cupola e di due
statue in basso»: si tratta degli angeli e delle due statue delle nicchie piccole, che
probabilmente furono eseguite da un altro intagliatore perché sembrano differenziarsi per
il modellato più grossolano tanto da quelle bellissime delle due sante in alto, quanto
dai rilievi del soffitto. Alla stessa mano appartengono quasi sicuramente le teste di cherubini
applicate al tamburo della cupola. In questo momento non è possibile studiare i vari
particolari lignei del monumento, smontati ed immagazzinati in attesa dei restauro;
ma si può già dire con certezza che i quattro angeli che erano sulla balaustra,
due nudi e due vestiti, sono di identica fattura: la notizia di due angeli rubati e
sostituiti, tramandata dal Dominici, o è falsa, come tante altre, o si riferisce ad altri
angeli.
Questi
sono stati gli ultimi lavori veramente importanti che riguardano il monumento nel suo
insieme; nella sostanza infatti nulla vi verrà aggiunto o tolto, nulla ne muterà
laspetto. A questo punto può essere interessante leggere la descrizione di un
illustre e devoto contemporaneo, don Pier Antonio Guerrieri: «... sontuoso adornamento in
forma di Castello, e di pomposo Tabernacolo con bel disegno, e ricca manifattura di
legname indorato e dHistorie variamente intagliate. Sopra la qual machina in alto si
apre un Regio Baldacchino di fino lavoro dintagli tutto messo a oro». Più barocca,
e più in linea col gusto del suo tempo, è la descrizione del padre agostiniano Michele
Vanzi: «Questo altare rappresenta la forma di Carro Trionfale, quale con vaga, e
industriosa architettura è fabricato, e di non ordinarie statue adorno. Di sopra da
ricchissimo Baldachino di mirabile scultura ricoperto; si scopre dalla sommità fino a
terra tutto ricoperto doro; quale con diligente cura di quei zelanti Fratelli vien
custodito: Nel mezzo di quello, come in seggio elevato, si vede della Regina degli Angeli
la gloriosissima, e miracolosissima Imagine». Nemmeno fra le righe vi si può scorgere un
qualche rammarico per il sacello rinascimentale nascosto ed anzi annullato dalle
trasformazioni barocche: i problemi della storia, della filologia, del restauro sono
problemi essenzialmente moderni, e toccherà a noi risolverli. In seguito ai lavori di
accrescimento dellaltare della Madonna, per una sorta di imitazione ed emulazione,
si compirono a Pennabilli diversi lavori in legno di grande impegno, che ne riecheggiano
lo stile e la sontuosità. Primo fra gli altri, già nel 1636, il tabernacolo che sta
sullaltar maggiore della stessa chiesa di San Cristoforo, a cura della
compagnia del Santissimo Sacramento e con il contributo della compagnia della Madonna
delle Grazie. Si tratta di una macchina bellissima, di struttura semplice, di un
manierismo tutto rinascimentale, sviluppata in altezza e complicata da aggiunte di
elementi architettonici e da decorazioni in rilievo ormai di gusto barocco, dorata e
dipinta in rosso e in blu secondo la tradizione; sontuosa e slanciata, è un
arredo architettonico di grande impatto visivo, oltre che di notevole
significato simbolico. Non sembra avere parenti prossimi in Romagna, ma ne ha
nellItalia settentrionale e forse nelle Marche meridionali. Anche il tabernacolo
fatto fare da monsignor Bernardino Scala qualche decennio dopo, verso il 1660, per la
cattedrale, ma oggi collocato, mutilo e diviso in due parti, in fondo alla chiesa di San
Cristoforo, è di grande bellezza nelle sue forme più dichiaratamente barocche; il
Guerrieri lo lodava come «Macchina sontuosa di gran vaghezza, e di lavoro Jonio, Corintio
e Dorico con indoratura Maestrevole e al tutto vistoso, che non credo ne sia un altro di
tal pregio da cento miglia intorno eccetto quello di S. Agostino dAncona». Il
riferimento al perduto tabernacolo degli Agostiniani di Ancona è senza dubbio
interessante: potrebbero essere stati appunto gli Agostiniani, a cui apparteneva la
chiesa di San Cristoforo, gli abili registi di tutte le imprese lignarìe'
che hanno ruotato attorno al monumento della Madonna delle Grazie ed allaltar
maggiore della loro chiesa, custodito ed amministrato dalla Confraternita del Santissimo
Sacramento. Daltra parte si doveva alla loro iniziativa anche lorgano
cinquecentesco citato precedentemente, con limponente cassa lignea di forme
classicheggianti, dorata, rabescata, e finemente ornata di grottesche. Comunque a
Pennabilli il gusto per le suppellettili lignee intagliate e dorate sembra aver perdurato
a lungo, come dimostrano molti ottimi pezzi raccolti nel Museo Diocesano. Fra tutti va
ricordata in questa occasione uninedita e stupenda Madonna lignea a tutto tondo, ora
scorticata, mutila e montata su un seggiolone barocco da processione, perché potrebbe
essere opera degli stessi artisti che hanno lavorato allaltare della Madonna delle
Grazie: comunque credo si tratti di un unicum per il territorio feltresco, almeno
per quanto riguarda la qualità. Forse solo a conclusione di tutti questi lavori fu
dipinta la tenda ancor oggi conservata nellancona della Madonna, che aveva la
funzione di nascondere lantica immagine miracolosa «come sacra e pretiosissima
Reliquia, che non si scopre se non per le solenni feste e gravi occasioni, e per la sua
anniversaria solennità, che si celebra il terzo Venerdì di Marzo per memoria del prodigioso
miracolo delle sue lacrime», come scriveva il Guerrieri. Questa tenda raffigura
lImmacolata Concezione, ed è una copia mediocre, per quanto abbastanza fedele, di
quella forlivese di Guido Reni; il Dominici la riferisce con sicurezza a Marco Bistolli e
ne cita con precisione la data di allogazione: 10 febbraio 1616. Ma qualcosa non quadra,
perché a quella data Marco Bistolli era già morto, e inoltre loriginale del Reni
non era stato ancora dipinto. Ad un momento successivo alla conclusione dei lavori va
riferita anche una tela raffigurante lassedio di Pennabilli e lapparizione
miracolosa della Madonna, purtroppo ora mutila della sua iscrizione, un tempo posta di
fronte al monumento forse come sovrapporta della sagrestia. Nonostante venga spesso
considerata coeva al miracolo che descrive, deve essere stata eseguita verso la metà del
XVII secolo: non si tratta dunque di un dipinto propriamente votivo, come potrebbe
sembrare, ma commemorativo. Credo possa essere attribuito al pittore pennese Giovanni
Bistolli (terzo, con il già citato Marco ed il meglio noto Giulio, di questa famiglia),
considerando che mostra qualche affinità con le lunette affrescate del chiostro di
Maciano (raffiguranti episodi della vita di San Francesco), datate al 1656-59, che
costituiscono un testo fondamentale per la ricostruzione della sua personalità, ma che
sono fortemente deperite ed ora anche insidiate dal crollo degli intonaci e delle volte
stesse. Limmagine miracolosa ed il suo altare sono stati oggetto di molti piccoli
interventi anche in seguito, ma nessuno di essi ne ha modificato sostanzialmente
laspetto. Questo non significa necessariamente una caduta di interesse devozionale
per la Madonna delle Grazie; considerato ormai completo laltare, lattenzione e
gli investimenti dei fedeli e della Compagnia si rivolsero ad altri fatti:
prima di tutto la diffusione del suo culto, poi lincoronazione ufficiale
dellimmagine, larricchimento e lammodernamento degli arredi e via
dicendo. Attorno alla Madonna delle Grazie continuarono dunque a fiorire imprese
artistiche di vario livello e di varia importanza: nuove «vesti» per
limmagine, nuovi paliotti per laltare, nuove suppellettili liturgiche. Qui è
impossibile dar conto puntualmente di tutto questo fervore. Ma bisogna ricordare almeno
unopera deccezione: una «veste» in lamina dargento parzialmente
dorata, la cui manifattura impegnò la Compagnia per molti anni. La sua storia è lunga;
comincia nel maggio del 1721 con il ricalco su carta della Madonna e del profilo della sua
cornice centinata, per ricavarne la «forma» da inviare a Roma ad un argentiere, forse
per un preventivo. Loperazione, eseguita con poca esattezza, viene ripetuta due anni
dopo; ma forse il lavoro era troppo costoso, e così nel 1727 si ripiegò su due coroncine
dargento in sostituzione di quelle doro (con cui era stata ufficialmente
incoronata nel 1708), riservate prudentemente solo alle massime solennità. Lidea
però venne ripresa nel 1730, quando troviamo già consegnata ad un maestro argentiere di
Roma una consistente caparra. Solo il 4 gennaio del l734 «giunse alla Penna la veste
dargento lavorata in Roma per la nostra Beata Vergine, et inviata dal sig. abbate
Francesco Marcelli da Roma per il vetturale Giuseppe Mancini lavoratore de signori
Olivieri di Lunano. Pesò con la cassa lib. 110 et ebbe il suddetto per sua mercede in
tutto paoli 40, cioè paoli 22 per il peso suddetto a ragione di baj. 2 per libra, paoli
15 così concordati oltre limporto del detto peso, e paoli 3 per benandata per
essergli convenuto pernottare qui alla Penna con la bestia». Era stata eseguita, ci
informa unannotazione successiva, da un certo «Stefano Francois argentiere», di
cui abbiamo poche notizie e soprattutto di cui conosciamo pochi altri lavori: era romano,
anche se forse discendeva da una delle tante famiglie di artigiani e artisti francesi che
si erano stabilite nella capitale nel secolo precedente, e prima di diventare maestro
argentiere «all'insegna del delfino» (1710) aveva fatto lottonaro
«allinsegna del mondo doro». La partita riguardante questa aveste»
dargento fu chiusa solo nel 1736 con doni di prosciutti e danaro agli amici e ai
compaesani che a Roma si erano dati da fare con gli argentieri e i doganieri perchè il
tutto andasse a buon fine: «per piccola ricognizione delle fatiche da essi fatte per
sopraintendere al lavoro della veste dargento venuta sin dallanno scorso, e
procurar di cavarla di mano allargentiere che diede molto da temere». Cosa avessero
da temere i confratelli pennesi non si sa, ma si può immaginare notando che il manufatto
dargento è pervenuto a Pennabilli nellanno stesso in cui largentiere è
morto: forse si ebbe qualche difficoltà ad ottenerla dai parenti durante la malattia
dellartista; ma soprattutto va notato che non reca né i bolli di garanzia camerali,
né quelli della bottega dellargentiere: forse per risparmiare su qualche tassa e
qualche dazio il lavoro fu esportato illegalmente, col grave pericolo di farselo
confiscare. Certamente eludendo ai controlli la compagnia rischiava anche di avere un
prodotto scadente per quanto riguardava la qualità del metallo; ma forse si ritenne
opportuno rischiare e perché i tempi calamitosi costringevano al risparmio, e perché le
tasse da pagare al lontano governo di Roma sembravano più inique di quelle pagate un
tempo al governo del duca. Contrariamente ad altre suppellettili preziose questa «veste»
è scampata alle requisizioni napoleoniche (forse proprio per la mancanza dei bolli di
garanzia) e ci è giunta in discreto stato; costituisce uno dei pezzi più
pregevoli del piccolo «tesoro» della Madonna delle Grazie, sia per quanto riguarda la
materia, sia per quanto riguarda la lavorazione, abbastanza buona anche se non
eccezionale, condotta secondo i moduli tipici del tardo barocco romano. Fino a pochi anni
fa, e quindi per due secoli, durante le ricorrenze solenni la Madonna delle Grazie si
presentava ai fedeli scintillante come una preziosa icona in questa sua veste
dargento che la faceva apparire ancora più dolce e misteriosa, «daspetto
venerabile e pietosa vista». Questa breve storia, o meglio questa breve raccolta di dati,
non ha bisogno di particolari conclusioni: vi emerge da sé, infatti, limportanza
dellimmagine miracolosa della Madonna delle Grazie come stimolo per la cultura
artistica
pennese: uno stimolo ancora operante, come dimostrano il recente restauro e le
manifestazioni sorte in margine allattuale celebrazione del V centenario delle
Lacrime; emerge da sé anche la vivacità di tale cultura, non priva di elementi peculiari
e di operatori locali, ma continuamente alimentata ed aggiornata da apporti esterni di
notevole peso, che la rendono varia e non provinciale. Però cè molto lavoro da
fare per ricuperare il senso di tanto fervore di opere e soprattutto per comprenderne la
genesi e lorientamento; e per capire come tali opere hanno interagito con le altre,
diversamente motivate, presenti nella città e nel suo territorio, e se, come e quanto
hanno contribuito a creare un sistema organico, una mentalità, una cultura. Pennabilli è
ricca di storia vissuta e non è povera di storie scritte; ma poco della prima si riflette
nelle seconde, per il troppo spazio concesso ai luoghi comuni, alle fantasie, alle
polemiche interpaesane, mentre vi sono state trascurate ancor più della «sana
critica storica», come si diceva un tempo - la ricerca organica e la riflessione sui dati
positivi. E questi sono negli archivi, che però aspettano ancora di essere riordinati,
resi pienamente pubblici e consultati; ma non solo: sono anche in tanti oggetti duso
dimenticati e dispersi, e nel paesaggio, nelle pietre, nei mattoni, negli intonaci, nei
colori «in forma di figure», che aspettano di essere salvati, di essere messi in
condizione di parlare, di essere interrogati con umiltà, con pazienza, con amore. Le
testimonianze darte, piccole e grandi, fiorite attorno alla Madonna delle Grazie
sono fra questi: costituiscono documenti preziosi di pietà, di storia, di vita, oltre che
di arte. Il loro riconoscimento, il loro ricupero ed il loro ascolto, appena iniziati, non
possono certo attendere un altro «centenario».